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Donare il sangue, segno di civiltà

I motivi della crisi a Milano

Chi dona il sangue non migliora solo il sistema sanitario, ma anche la qualità della vita dei donatori, il benessere e l’autostima

di Luigi Ripamonti

La crisi delle donazioni di sangue a Milano è un fenomeno che non deve essere sottovalutato, perché il suo significato va molto oltre la carenza netta di «sacche» negli ospedali milanesi. Il primo motivo è, ovviamente, quello squisitamente tecnico-sanitario: di sangue c’è molto bisogno perché la richiesta non cessa mai, sostenuta com’è, solo per fare qualche esempio, dall’aumento dell’età media della popolazione (col relativo corredo di patologie), dall’incremento del numero di trapianti e di altri interventi chirurgici importanti (che possono facilmente richiedere trasfusioni), dagli incidenti stradali eccetera. La raccolta di sangue riveste quindi un ruolo cardinale per l’efficienza di un sistema sanitario.

Un secondo aspetto da considerare attiene invece all’impatto indiretto che la donazione di sangue ha sul piano individuale e collettivo. Pensare alla donazione solo come a un gesto che esaurisce la propria funzione subito dopo che la «sacca» è stata stoccata dal centro trasfusionale sarebbe un grave errore, di giudizio e di strategia. Chi dona il sangue fa molto di più: migliora la qualità della propria esistenza, influenzando positivamente anche quella degli altri (e non solo di quelli che riceveranno il suo sangue). Questo perché la donazione induce una disciplina nell’alimentazione, nei consumi, nei controlli sanitari e quindi comporta un vantaggio sulla propria salute; inoltre la donazione è «una bella cosa», che aumenta l’autostima. E proprio in forza di questo accresciuto benessere individuale, fisico e psicologico, per una comunità avere molti donatori non significa solo poter far fronte prima e meglio alle richieste di «unità rosse» delle proprie strutture sanitarie, ma pure poter contare su molti cittadini dalla «vita migliore» e quindi disporre di una massa critica di salute che fa sentire il suo peso sull’intero sistema sanitario, anche sotto il mero profilo economico.

Un terzo aspetto da considerare è di carattere sociale e culturale. Il nostro è uno dei Paesi dove il sangue non si compra: può essere dato e ricevuto solo gratuitamente (plasma compreso, a differenza di alcuni Stati europei). Si tratta di un segno e di un patrimonio di civiltà da conservare e proteggere, con un senso civico che ne sia all’altezza. Sarebbe triste e pericoloso che Milano, come spesso accade, rappresentasse l’avanguardia di una tendenza destinata a contagiare altre aree del Paese. Perché in fondo alla discesa ci sarebbero ad aspettarci le «leggi del mercato». E in questo caso sarebbe meglio, molto meglio, non invitarle a nessun vampiresco banchetto. Per prevenire questa deriva può fare molto l’impegno delle associazioni che si occupano della raccolta di sangue e della promozione della donazione. Ma quello che funziona di più è l’esempio, soprattutto per i giovani, cioè la fetta di popolazione che più manca all’appello della donazione. Conoscere un donatore conta più di mille parole. È il modo migliore per capire che donare sangue è un vero affare, che conviene a tutti.

Corriere della Sera – 12 luglio 2014

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